In questa
lettura il genetista Buiatti sottolinea i pesanti condizionamenti che il
positivismo, soprattutto con la componente meccanicista e determinista,
esercita ancora nel campo della biologia. Ma l’approccio deterministico al DNA
viene sempre piú smentito dall’esperienza, dal momento che questa struttura si
sta rivelando instabile.
M. Buiatti, Da Mendel
all’ingegneria genetica
Sul piano concettuale questa scienza è infatti il luogo
privilegiato del dibattito, mai sopito, fra chi pensa che la vita sia
predeterminata alla nascita ed iscritta in un qualche tipo di programma
ereditario e chi invece assegna un ruolo importante alla storia degli organismi
dovuta al fluire, nel tempo, delle interazioni con l’ambiente. La cosa non è
affatto irrilevante. Se, infatti, come si pensava dopo la “riscoperta”, nel
1900, dell’opera di Mendel, le nostre caratteristiche sono univocamente
determinate da fattori ereditari stabili che si assortiscono casualmente di
generazione in generazione, il nostro essere belli o brutti, alti o bassi,
malati o sani ma anche, per estrapolazione buoni o cattivi, poveri o ricchi,
dipenderà esclusivamente dal patrimonio genetico dei nostri genitori e dalla
combinazione di elementi di questo che ci sarà capitata. Non solo, ma la nostra
storia sarà anch’essa prefissata e del tutto indipendente dalle interazioni con
gli altri esseri umani. La qualità della vita allora estremizzando, potrà
essere migliorata non con piú eque regole di convivenza sociale, con i servizi
collettivi ecc. ma soltanto scegliendo e facendo riprodurre quelli di noi che
avranno i “migliori” patrimoni genetici.
Non a caso questo modo di pensare che ha, naturalmente,
radici ben piú antiche della genetica (diceva Platone che il figlio dell’oro è
d’oro, quello di bronzo anch’esso di bronzo) è tipico dei razzisti di tutte le
epoche, e serve a giustificare chi si ritiene “migliore” e vuole quindi
emarginare isolare anche eliminare, gli “altri da sé” (i peggiori). Una
alternativa alla selezione, almeno nell’immaginario scientifico che ci
propinano i mass media e, molto piú recentemente, la modificazione “mirata” del
patrimonio genetico dell’uomo ma anche degli animali, delle piante, dei batteri
ottenuta inserendo geni opportuni con le moderne, raffinate tecniche messe a
punto dalla biologia molecolare. Anche in questo campo il punto di vista
“mendeliano” della genetica ha una influenza importante sul modo di comportarsi
nella “costruzione” di organismi “nuovi” magari utilizzati a fini produttivi.
Se infatti i geni sono indipendenti l’uno dall’altro e determinano univocamente
un organismo gli effetti della ingegneria genetica (insieme di tecniche di cui
si diceva), saranno del tutto prevedibili e non comporteranno rischi derivanti da
impreviste interazioni fra gene alieno e patrimonio genetico ospite e fra il
nuovo organismo e l’ambiente. Conviene notare, a questo proposito, che il
concetto di prevedibilità degli effetti anche a medio e lungo termine, che si
basa su una visione riduzionista del mondo (conoscendo le parti di un sistema
si conosce il sistema intero non essendovi interazioni) non è presente solo in
biologia ma è invece alla base dell’ottimismo positivista in tutti i campi ed
anche della convinzione di un progresso illimitato fondato sulla prometeica
onnipotenza della conoscenza umana.
Paradossalmente risultati concettuali in parte simili a
quelli ora descritti, mendelianamente legati ad una prevalenza dell’interno
sull’esterno possono essere raggiunti anche partendo dalla visione opposta, per
la quale l’organismo sarebbe tutto determinato dall’ambiente e quindi anche
dagli esseri umani che di questo ambiente costituiscono una parte
preponderante. Questo punto di vista è stato, non a caso alla base della
biologia dei socialismo reale in cui si enfatizzava la capacità degli esseri
umani, di plasmare gli esseri viventi e se stessi a volontà. In questo caso la
prevedibilità degli effetti deriva non dalla conoscenza dei geni ma dalla
programmata coscienza degli atti in un quadro forse ancora piú determinista di
quello mendeliano (nella biologia “socialista” manca totalmente il concetto di
caso). Sui piano applicativo l’esemplificazione piú evidente di questo
atteggiamento era la pretesa lysenkoista di plasmare il patrimonio genetico di
animali e piante modificando l’ambiente circostante e le tecniche di
allevamento, che ha portato a disastri sul piano politico (l’emarginazione e in
alcuni casi la morte dei genetisti “occidentali”) e su quello della produzione.
Le due visioni, accomunate nel determinismo, divergevano invece, ovviamente,
nella impostazione delle politiche sociali, inutili nel primo caso come si è
detto, fondamentali nel secondo. L’ambiente modificatore era in questo caso
quello sociale, regolato dal socialismo.
[...] la contrapposizione ideologica di cui sopra, di cui i
dati scientifici non erano causa ma voluto e parziale supporto di una
controversia del tutto politica, ha gravemente ritardato l’emergere, nella
scienza, di concezioni diverse, piú recentemente avvalorate da una crescente
quantità di dati. In realtà le due estremizzazioni non sono mai state
interamente fatte proprie da nessuna corrente scientifica e rappresentano
piuttosto il risultato della scelta esterna di privilegiare punti di
osservazione diversi cogliendo di volta in volta i dati utili per confermare
opinioni che vengono piú dalla sfera ideologica e politica che da quella della
scienza sperimentale. Ciò non toglie che i biologi, a loro volta, siano
coscientemente o inconscientemente influenzati da tali opinioni e tendano
anch’essi a scegliere ottiche diverse con cui guardare gli esseri viventi.
Con il risultato, spesso, di trovare quello che cercano.
Come ha fatto lo stesso Mendel che, scegliendo caratteri che si presentavano
sotto forme alternative (piselli gialli e verdi, lisci o rugosi ecc.), per
poter contare quanti individui presentavano l’una o l’altra forma di
generazione in generazione e trovare cosí leggi matematiche generali, ha
dimostrato, guarda caso, che i caratteri sono discontinui (alternativi) e si
distribuiscono a caso. Cose ambedue vere, ma solo in certi casi, come è stato
dimostrato non molto dopo la riscoperta del lavoro dell’abate di Brno.
Sintetizzando questi concetti si può quindi dire che, da un lato, la società
“sceglie” i dati scientifici ed attribuisce loro valore e spazio diversi nella
trasmissione di massa in base ai modelli culturali prevalenti, dall’altro
questi ultimi influenzano la scelta dei punti di osservazione della natura da
parte dei ricercatori.
[...]
Contemporaneamente due grandi e allora inascoltati ma non
solitari precursori, Richard A. Goldschmidt e Barbara Mc Clintock (a
quest’ultima fu attribuito il premio Nobel trent’anni dopo, nel 1981) ponevano
l’accento sulla forte instabilità del materiale genetico. In particolare la Mc
Clintock scoperse l’esistenza di elementi genetici, in grado di “saltare” da un
punto all’altro del genoma inattivando o modificando l’espressione dei geni in
cui o vicino ai quali si vanno a inserire.
Nonostante questa ed altre scoperte lo spirito del tempo
negli anni ‘50 ed ancor piú negli anni ‘60 fa sí che la genetica
dell’immaginario collettivo e, di conseguenza anche di larga parte della
comunità scientifica appaia pervasa dalla opinione, di stampo positivista, che
si possano conoscere gli organismi e la loro storia semplicemente leggendo le
informazioni scritte sul DNA. Le speranze che la “lettura” fosse a portata di
mano derivavano dal grande balzo in avanti che aveva fatto la biologia
sperimentale grazie allo sviluppo delle tecniche della biologia molecolare. Nel
primo dopoguerra infatti, anche in concomitanza con lo sviluppo delle imprese
farmaceutiche si era verificato un incontro, estremamente fruttuoso, fra
biologia, chimica e fisica il cui “manifesto programmatico” può essere considerato
il volume Cos’è la vita, piccola raccolta di conferenze del
fisico Erwin Schrödinger. Questo profetico volume, che ispirò direttamente gli
scopritori della struttura del DNA (1953) teorizzava l’utopia informatica e la
conoscenza dei processi ereditari attraverso lo studio della struttura e
funzione delle molecole ad essi preposte.
All’inizio degli anni ‘60 veniva decifrato il codice di
lettura della informazione genetica ed elucidato il meccanismo con cui avviene.
Contemporaneamente si scoprivano le basi molecolari delle mutazioni
(modificazioni del materiale genetico) e della regolazione (processi di
controllo quali- quantitativo dell’espressione genetica).
All’inizio degli anni ‘70 l’utopia sembrava compiuta, tanto
da ispirare il libro sintesi di questa corrente di pensiero Il caso e la
necessità, di Jacques Monod. In questo volume tutti i processi
viventi venivano ricondotti al cosidetto “invariante fondamentale”, il DNA,
programma stabile e preciso della vita, trasmissibile di generazione in generazione.
Alle mutazioni veniva assegnato essenzialmente il ruolo di rumore mentre
l’ambiente veniva praticamente ignorato, con un’opera di rimozione
caratteristica dei momenti culminanti della affermazione di un paradigma.
Infine, proprio all’inizio degli anni ‘70 venivano messe a punto le tecniche di
base per l’isolamento di geni da un organismo e l’inserimento degli stessi in
un altro, tecniche che aprivano la strada alla trasformazione mirata degli
esseri viventi, Homo sapiens incluso (ingegneria genetica). L’uomo sembrava
essere giunto cosí al massimo del suo sogno di onnipotenza, quello di diventare
costruttore di vita, e in particolare di se stesso. Lo spirito positivista del
tempo si estendeva ad altre discipline ed in particolar modo alla sociobiologia
con la ripresa degli studi sulla ereditarietà del comportamento che avevano
subito alcune battute d’arresto nel primo dopoguerra.
Come spesso succede in questi casi, venivano pubblicati e
premiati i lavori che sembravano dimostrare l’influsso dei geni sull’umanità
dell’uomo (in parte risultati poi addirittura inventati) mentre uscivano con
difficoltà o comunque venivano poco divulgati quelli che lo smentivano.
L’ideologia della selezione umana (eugenetica) estremizzava la scelta
dell’ottica DNA-centrica rilanciando la creazione dell’uomo “migliore” non piú
attraverso la diretta eliminazione degli “altri” ma attraverso la loro
trasformazione. In modo solo apparentemente paradossale, tuttavia, i primi anni
‘70 vedono una serie di scoperte, compiute proprio utilizzando le tecniche di
biologia molecolare, che minano i fondamenti dell’ottica unilaterale
caratteristica de Il caso e la necessità. Mentre veniva scoperta la base
molecolare degli “elementi mobili” della Mc Clintock successivamente trovati in
un vastissimo spettro di organismi, si dimostrava che molta parte del genoma
degli organismi superiori non è costituita da geni classici ma da DNA
probabilmente almeno in parte deputato alla regolazione. Poco dopo, negli anni
‘80, si individuavano una serie di meccanismi che possono rendere ambigua la
lettura di una porzione di informazione genetica (piú prodotti diversi da un
gene), si dimostrava che le cellule di un organismo superiore possono essere
diverse geneticamente le une dalle altre, si chiariva che l’espressione di
porzioni del genoma può cambiare anche in modo stabile non solo per
modificazioni quantitative del codice ma anche per alterazioni del numero di
copie o aggiunta al DNA di piccole molecole nel corso dello sviluppo. Infine,
molto recentemente, sono stati elucidati i processi con cui avviene la
comunicazione di segnali fra cellule e con l’esterno, dimostrando che a segnali
diversi corrisponde l’attivazione di subprogrammi diversi da parte delle
cellule. Un organismo quindi, lungi dall’essere il rigido derivato dalla
traduzione univoca del messaggio ereditario, sembra essere uno dei moltissimi
organismi possibili, beninteso nell’ambito del fascio permesso dal patrimonio
genetico, dalla storia dell’ambiente, dai diversi tipi e livelli di interazione.
In questo senso non è prevedibile, come non lo è la storia della interazione
con gli altri esseri viventi.
M. Buiatti, Da Mendel all’ingegneria genetica, Nuova Secondaria, La Scuola, Brescia, 15 febbraio 1995, pagg. 31-34